Il Giudizio è come un killer silenzioso che colpisce chiunque ovunque. Ho condotto uno studio personale sul tema del giudizio "Giudicare è come giudicarsi" per ben 5 anni. Finalmente è arrivato il momento di condividere i risultati di questa analisi, resa possibile grazie a 3.525 ore di formazione e al coinvolgimento di 1.035 persone.
Ebbene sì, negli ultimi cinque anni, mi sono dedicato con passione a un’analisi approfondita degli effetti del giudizio nelle dinamiche aziendali; e no, non parlo solo del giudizio professionale, tipo il feedback sulle prestazioni di un collega. Parlo di quel giudizio, spesso non richiesto, che trasforma ad esempio un open space in una giungla dove ogni sguardo pesa come una sentenza e ogni parola lascia un segno.
Perché diciamocelo, siamo tutti un po' giudici nell’arena delle relazioni, vero?
Dalle mie osservazioni, supportate da sessioni di coaching, workshop e un numero incalcolabile di caffè condivisi con professionisti di ogni settore, emerge chiaramente un concetto: il giudizio non è mai neutro. Può unire, ma più spesso divide. Può stimolare la crescita, ma con la stessa facilità può demolire l’autostima. Ed è proprio qui che la questione si fa interessante. Perché giudichiamo? Cosa ci porta a misurare gli altri (e noi stessi) con metri che spesso non sappiamo neanche spiegare?
Giudizio e stress: un binomio esplosivo
Partiamo da un fatto scientifico: il giudizio è stressante, per chi lo riceve ma anche per chi lo emette. Diversi studi e libri sul tema, confermano che essere sottoposti a giudizi frequenti può attivare aree del cervello associate alla risposta allo stress. Questo è il famoso effetto “fight or flight”, che ci prepara alla fuga o al combattimento. Non proprio il mindset ideale per una riunione produttiva, no?
Ma il bello è che anche chi giudica non ne esce indenne, ho verificato quanto giudicare gli altri tende a rinforzare pensieri negativi e cinici, aumentando il rischio di sviluppare ansia e una visione distorta della realtà. Insomma, è un po' come bere veleno e sperare che sia l’altro a sentirsi male.
Le radici psicologiche del giudizio
La psicologia ci dice che il giudizio è spesso una proiezione delle nostre insicurezze. Quando giudichiamo gli altri, in realtà stiamo puntando il dito verso quelle parti di noi stessi che preferiremmo ignorare. Questo fenomeno è stato esplorato in profondità da Carl Gistav Jung, che lo definiva “l’ombra”: tutto ciò che rifiutiamo di accettare di noi stessi viene proiettato sugli altri.
Un po di esempi pratici che ho condiviso durante le mie sessioni di Business coaching:
Ti infastidisce il collega che arriva sempre in ritardo? Forse è perché inconsciamente temi di non essere abbastanza disciplinato.
Ti irrita chi fa mille domande in riunione? Forse è perché hai paura di essere percepito come incompetente.
Ti dà fastidio chi parla troppo dei propri successi? Magari è perché hai paura di non essere abbastanza valorizzato.
Trovi irritante chi sembra sempre sereno e rilassato? Forse è perché ti senti schiacciato dalla pressione che imponi a te stesso/a.
Durante le mie lezioni porto molti esempi come questi, soprattutto quelli più complessi, proprio per far comprendere la dinamica del giudizio.
Il giudizio nelle aziende: un nemico della collaborazione
Nelle dinamiche aziendali, il giudizio è un virus. Infetta la comunicazione, minaccia la fiducia e può trasformare anche i team più affiatati in campi di battaglia.
Durante i miei workshop, ho visto come i giudizi non espressi (ma percepiti) possano creare tensioni sottili ma persistenti. E non serve essere un genio per capire che un team teso non produce.
Ma come si può invertire questa tendenza? La risposta non è facile, ma è possibile. In primo luogo, bisogna lavorare sulla consapevolezza: riconoscere quando stiamo giudicando e chiederci perché lo facciamo; poi, è fondamentale imparare a separare il comportamento dalla persona.
Criticare un’azione è costruttivo; giudicare l’individuo è distruttivo.
Quando il giudizio diventa una prigione
Uno degli aspetti più devastanti del giudizio è che può trasformarsi in un’etichetta.
Quante volte abbiamo sentito frasi come “Lui è sempre il solito” o “Non cambierà mai”? Ecco, queste non sono semplici opinioni: sono condanne; il problema è che spesso chi le riceve finisce per crederci.
La psicologia sociale ci insegna che le persone tendono a conformarsi alle aspettative altrui. Questo fenomeno, noto come effetto Pigmalione, dimostra che le parole possono plasmare la realtà. Se dici a qualcuno che non è capace, finirà per comportarsi come tale. Le nostre parole non solo feriscono, ma possono diventare prigioni dalle quali è difficile uscire.
Aspetta, ti spiego cos'è l'effetto pigmalione: riguarda il modo in cui le aspettative degli altri influenzano il nostro comportamento. Quando si comunica a qualcuno che ha determinate capacità (o la loro mancanza), quella persona potrebbe agire in modo coerente con queste aspettative. Si basa sulla profezia che si auto-avvera: ciò che crediamo può diventare realtà proprio a causa del nostro atteggiamento verso di essa.
In alcuni casi invece parlo di effetto Priming: riguarda l'attivazione inconscia di schemi cognitivi o associazioni mentali che influenzano il comportamento. Ad esempio, se esposti a parole positive, si tende a comportarsi in modo più ottimista; se esposti a parole negative, può accadere il contrario. Il priming opera spesso a livello subliminale o implicito.
Il potere del cambiamento
È qui che entra in gioco la riflessione più importante: le persone cambiano. È nella loro natura. Ma il giudizio, rigido e immutabile, spesso impedisce questo cambiamento. Se giudichiamo qualcuno come incompetente, ogni suo errore confermerà il nostro giudizio. E così, senza volerlo, diventiamo complici del suo fallimento.
È fondamentale ricordare che ogni persona è un work in progress. Un comportamento non definisce un individuo, così come un errore non definisce una carriera. Le nostre parole hanno un peso, e dobbiamo usarle con cura. Perché possono ferire, sì, ma possono anche guarire.
In questi 5 anni di studio, osservazioni e analisi mi hanno insegnato che il giudizio non è mai un semplice pensiero passeggero.
Ho trascritto centinaia di esperienze, analizzato i comportamenti nei minimi dettagli e confutato le idee preconcette che spesso avevamo nei confronti delle dinamiche relazionali. Ecco la sintesi di quanto ho imparato: il giudizio è una trappola che limita le persone e ostacola il cambiamento.
Ho visto come etichettare qualcuno possa bloccare il suo potenziale, creando un circolo vizioso dove le aspettative negative diventano realtà. Ma ho anche visto che quando smettiamo di giudicare e iniziamo a supportare, il cambiamento diventa possibile.
Il giudizio può essere trasformato in uno strumento di crescita, se siamo disposti a guardare oltre i nostri preconcetti e a lasciare spazio all'evoluzione dell'altro.
In definitiva, le parole che scegliamo non sono mai neutre: possono ferire, guarire, bloccare o liberare. Per questo è fondamentale usarle con consapevolezza.
Trasformiamo il giudizio in un'opinione, apriamoci alla possibilità del cambiamento e ricordiamo sempre che ogni persona è in continuo divenire. Scegliamo di costruire ponti, non muri.
Il giudizio è una trappola, non solo per chi lo riceve, ma anche per chi lo emette.
Il collega disorganizzato di oggi potrebbe diventare il leader strategico di domani. Ma questo cambiamento è possibile solo se noi, come colleghi, amici o datori di lavoro, smettiamo di giudicare e iniziamo a supportare. Perché le nostre parole, le nostre azioni e i nostri pensieri possono fare la differenza. E allora perché non usarli per costruire invece che distruggere?
Infine, una riflessione che vorrei lasciarti come spunto: hai mai pensato che un giudizio, proprio come una prigione, possa indurre gli stessi effetti collaterali?
A breve partirà un progetto per le aziende, se vuoi far partecipare la tua azienda scrivimi.
Un caro saluto, il tuo coach Andrea